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I nostri racconti

Amiamo la festa, non il passatempo, non fuggire, ma capire 

In tempi di guerra come quello che stiamo vivendo non è semplice essere felici. Non è facile o scontato stare bene vedendo tutti quei carri armati russi per le strade delle città ucraine o gli aerei abbattuti da lanciarazzi. Certo, se si vuole, ci si può allontanare da tutto questo dolore  cercando nelle cose da fare, nella quotidianità, una via di fuga per non pensare, ma riconosco in me il bisogno di una posizione più autentica. In questo contesto, la compagnia teatrale “Chescenaè”, nata ad ottobre da alcuni amici universitari ingegneri, fisici ed agrari, è per me fondamentale. E’ stata un’esperienza straordinaria fin dal principio. Non ci conoscevamo tutti, ma quell’appuntamento settimanale a cui era bello essere fedeli è bastato in poco tempo a colmare la distanza e l’impaccio che normalmente si crea tra sconosciuti che si trovano a fare esercizi ogni tanto al limite dell’imbarazzante. In tutto quel che si faceva, dalle proposte più stupide, come sfide a LOL ed esercizi di improvvisazione, a quelle più serie, come l’immedesimazione e gli esercizi sugli opposti, ognuno di noi doveva trovare il coraggio e lo spazio per far venire fuori sempre di più il proprio io. E se quanto detto fin qui potrebbe essere solo una banale sottolineatura del “benessere” fisico e psicologico, quasi terapeutico, dell’attività teatrale, non vorrei che si confondesse con il focus che mi ha spinta a dedicare del tempo per scrivere un articolo a riguardo.Il fatto che sia un luogo in cui lo scopo del giuoco è quello di far emergere autenticamente chi siamo mi costringe a guardare alla sua rilevanza storica, all’utilità che ha non solo per me, ma per il solo fatto che esista: “Noi non crediamo che il teatro sia una abitudine mondana o un astratto omaggio alla cultura. Non vogliamo offrire soltanto uno svago né una contemplazione oziosa e passiva: amiamo il riposo, non l’ozio; la festa, non il passatempo…Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità, liberamente riunita, si rivela a se stessa; il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché anche quando gli spettatori non se ne avvedono, questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale…Chiediamo la vostra solidarietà in questa nostra fatica.” (discorso di Streheler sul Teatro Piccolo)  Per replicare un fatto già accaduto o una storia pensata da altri, qualcosa con caratteristiche ben precise insomma, è necessario un lavoro molto fine di ricerca del cuore di ciò che si sta mettendo in scena. Allora si capisce che il teatro nasce come luogo aperto al confronto e alla libertà di giudizio, dove si offre allo spettatore un’interpretazione che non ha la pretesa di essere verità assoluta, ma di coinvolgere e di non lasciare gli spettatori indifferenti. Per me è eccezionale che forme d’arte come questa possano avere una potenza straordinaria nel suscitare domande di verità e, nel farlo, rendere liberi e partecipi chi le osserva.

Lettera a tracce

Adriana Mascagni. Fino a non molto tempo fa questo era solo un nome per me, sicuramente un nome importante perché era quello dell’autrice di tante canzoni che accompagnano la mia vita sin dall’infanzia. Il nome di una donna che ha saputo davvero fino in fondo far fruttare i talenti che il Signore le aveva dato attraverso la sua voce e le sue parole. Un nome che un mesetto fa è diventato un volto, parola a lei così cara.Un giorno un’amica con cui condivido la passione per il teatro scrive sul gruppo della compagnia di cui entrambe facciamo parte insieme ad altri amici universitari e non: “ragazzi l’Adriana Mascagni vorrebbe incontrarci”.
Si organizza così una cena: un appartamento, un po’ di pizze, un calzone per lei, qualche birra e poco più di una decina di ragazzi intorno al tavolo, pronti ad ascoltare che cosa la portasse lì.
Di tutto quello che è uscito quella sera mi hanno stupito due aspetti. In primis, il bene tra lei e suo marito Peppino emerso dai racconti della loro giovinezza, trai quali, a distanza di più di 50 anni, non mancavano episodi su cui scherzare con complicità. Il secondo aspetto è stata la dedizione al Movimento, che per lei e suo marito è stata la forma con cui il Signore li ha presi e fatti camminare. Hanno passato la cena a raccontarci con entusiasmo dei loro anni in università, quando anche loro facevano teatro e mettevano a disposizione questa passione per tutti, dagli amici che partivano per la missione al far ridere di gusto con i frizzi dove era necessario. Ci hanno incoraggiati a capire quale fosse il punto del nostro fare teatro, quale fosse lo scopo, dicendoci quanto fosse stato fondamentale per loro vedere che cosa c’entrasse questo con il Destino di ogni membro della loro compagnia.
Quando stamattina (22 dicembre) la Ceci ha scritto sul gruppo di Chescenaè che l’Adriana era morta, sono rimasta scossa e mi sono detta: "che strana la vita, poco più di un mese fa eri solo un nome, poi ti abbiamo incontrata e adesso te ne vai".
La tua morte così ravvicinata al nostro incontro ci lascia con un grande senso di Mistero e preferenza, come se fossimo stati uno degli ultimi posti in cui è stato lasciato uno dei semi della tua fede, che ha riacceso noi attori. Adesso starà a noi capire quello che tu e tuo marito ci avete mostrato come vero per voi.Cara Adriana ti ringraziamo di averci voluti incontrare e ti auguriamo di essere finalmente al sole del Suo amor.

Buon viaggio,
la compagnia Chescenaè

Da Testori a Chesterton

“È a te come te, Luca, che vorrei parlare”.

Così inizia la lettera che Testori indirizza ad un giovane ragazzo di 18 anni che ha assassinato la madre in un eccesso di collera.

“Questa lettera che ti mandiamo noi tutti che lavoriamo a questo settimanale e, con noi, tanti tuoi amici, vorremmo che t’arrivasse, calma e serena, e che ti si fermasse lì, sul cuore, quel cuore, quel cuore su cui chissà quante volte tua mamma ha appoggiato la sua fronte. Insieme che sul cuore, vorremmo che ti si fermasse sulla fronte, quella fronte che chissà quante volte hai appoggiato sul cuore di tua mamma. […] Noi non vogliamo varcare nessuna soglia che appartiene al segreto e al mistero della tua coscienza. Tu, se ne avrai necessità, ce la spalancherai. Ma noi sappiamo che in quel segreto e in quel mistero, tu sei uomo come noi. […] Noi tutti abbiamo sbagliato e sbagliamo; noi tutti abbiamo peccato e pecchiamo. Anche per questo, caro Luca, ti siamo tutti fratelli. A qualcuno potrà forse sembrare che tu abbia peccato in modo atroce; scrivo “potrà sembrare” e ho quasi paura… Ma se anche fosse vero, questo non elimina neppure per un attimo la realtà prima; e cioè che tu sei, come noi, interamente, totalmente uomo; e che dunque tu sei, come ognuno di noi, al centro dell’incarnazione di Cristo; anzi, in questo momento, tu lo sei in modi del tutto privilegiati, per tenerezza, per assiduità, per tremore. Chi può presumere di capire fino in fondo quello che t’è accaduto? Dio solo lo sa: Lui solo capisce. E, in realtà, lui ha capito tutto; e un giorno ti misurerà secondo il suo metro che è d’infinita carità. E’ a quella giustizia e a quella carità che dobbiamo rimetterci tutti; ognuno di noi, né più, né meno, di te.”

Non ho la pretesa, né il desiderio di entrare nel merito di tutte le grandi questioni che mette in gioco questa lettera; ciò che mi preme dire, però, è che, leggendola, ho desiderato che quelle parole fossero per me. Per me, che sistematicamente mi incastro nelle mie miserie quotidiane e mi dimentico che le cose nella vita mi vengono donate non in base al mio “merito”. Quello che scrive Testori ha un respiro più ampio: non si limita al particolare, sia esso un particolare piccolo (quello che ci va a genio o meno), sia esso il male che compiamo; ed è desiderabile per me la posizione di Testori, cioè quella di un uomo che tenta di abbracciare la totalità della cose e cioè, che le cose sono un dono, qualcosa che non ci era dovuto e ci è stato dato non in virtù dei nostri meriti o dei nostri mali, ma da un Amore che ci precede e ci perdona.
Questa “gratuità” delle cose scardina la logica con cui siamo abituati a guardare gli altri e a guardare noi stessi e mi ha ricordato “Uomovivo” di Chesterton, che proprio in queste settimane stiamo preparando con i miei amici per portarlo in scena. Fin dall'inizio il protagonista del romanzo, Innocent Smith, irrompe come un gran vento, un vento di gioia, di rumorosa e dirompente allegria, che meraviglia e conquista tutti:
“Non vedete che tutto, in questo giardino, appare come un gioiello? Smettetela di pensare in termini commerciali, e iniziate a guardare! Aprite gli occhi e vi sveglierete!”. (Gilbert Keith Chesterton, Uomovivo). Ma subito il dottor Moon si contrappone con il tentativo, seppur “innocente”, di voler incasellare e, quindi, banalizzare questa posizione semplice del cuore: “Per quanto mi riguarda, ritengo che l’uomo sia legato a un destino allacciato alla tragedia, e che non c'è scampo alla trappola della maturità e del dubbio. Ma se una via di scampo ci deve essere, per Cristo e san Patrizio, non può che essere questa: per conservarsi felici come un bambino o come un cane, non ci resta che essere innocenti come un bambino o innocenti come un cane, entrambi incapaci di peccare. Per dirla in parole povere, bisogna essere buoni… sì, questa può essere la strada da seguire, e lui mi sembra l’abbia trovata.” (Gilbert Keith Chesterton, Uomovivo).
E' difficile, però, per l'uomo essere semplicemente ‘buono’ come sostiene Moon. L'innocenza di cui si parla nel romanzo non è un’innocenza primitiva, spontanea (“innocenti come un bambino”), ma un’innocenza che deve essere continuamente riconquistata, che non è possibile senza la fatica di un lavoro su di sé, e più profondamente senza un luogo ove sia possibile il perdono. Solo in questo lavoro, però, diventa possibile la felicità.
Le parole di Innocent sono, in tutto il romanzo, un inno alla bellezza e alla gratitudine per tutto ciò che ci circonda: non solo le cose belle sono un dono, ma anche le cose “brutte”. Non solo la rosa ha un valore infinito, di fronte alla possibilità di un mondo che non conoscesse la bellezza di una rosa, ma anche i brutti lampioni verdi hanno un valore infinito, che tutti riconosceremmo se naufragassimo in un’isola deserta senza nulla che ci faccia lume. Tutto è bello se guardato da questo particolare punto di vista. E’ una questione di sguardo.
A noi, quindi, non è chiesta “la bontà”, la “perfezione”, è chiesto solo di “aprire gli occhi e iniziare a guardare!”.

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